Aldo Cicinelli – Un Etrusco nostro contemporaneo: Franco Venanti

Da quando con Bruno Mantura ho esaminato da vicino il dipinto di Federico Faruffini “Gli Etruschi a Perugia” per essere acquistato dalla Regione dell’Umbria, ho iniziato a pensare che l’Etruria è un concetto culturale assai più esteso di quello geografico coincidente con la Toscana, l’Umbria a sinistra del Tevere ed il Viterbese; da Mantova dove ebbero sede il mito della sacerdotessa etrusca Manto, del carro del Sole-Apollo guidato dal figlio Fetonte, la leggenda di Virgilio ad Andes a Pontecagnano nel Salernitano le terre irrigate dai nostri fiumi hanno dato le argille rosse e gialle per le antefisse, i cornicioni, i gruppi statuari, i sarcofagi, le tegole mediante i quali una delle culture più complesse del Mediterraneo si è espansa, ed ancora oggi sotterraneamente opera. Terracotte, bronzi, pietre vivissime di colori per una società di donne e uomini eleganti ed agghindati che aveva anche un com- plesso concetto dell’aldilà: sia lieto che impressionante. I viaggiatori nei territori dell’Impero Romano distinguevano ancora particolarmente due Regioni per le loro caratteristiche: la Grecia, patria dei Filosofi; l’Etruria, patria degli Aruspici e dei Sacerdoti. Quando molto prima che i Romani creassero un Impero le fortune degli Etruschi cominciarono a declinare, lasciarono ad altri popoli, loro concorrenti, le rive del Mar Tirreno che da loro aveva preso nome, ritirandosi all’interno delle loro terre su alte colline che fortificarono magistralmente creando presso molte “città dei vivi” quelle “città dei morti” di cui solo i tempi recenti hanno pienamente capito il valore artistico, di contro ad una precedente interpretazione della loro Arte che la riduceva a replica provinciale dell’Arte greca.

Franco Venanti, etrusco nostro contemporaneo, ha una “tavolozza” – se il termine si può ancora usare – dai forti colori, dai rossi squillanti, dai blu violetti, dai neri, che ripropone il gusto per il colore degli Etruschi, dai densi contrasti, dalle terrificanti visioni che spesso oltre che terrificanti sono anche grottesche. Così sono le immagini del maestro Venanti, che propone guerrieri e busti in marmo, figure maschili per metà centauri e metà motociclisti equivoci e violenti, in un misto di spavalderia e brutalità; che propone figure femminili come sirene sensuali e sfuggenti, belle ma indefinite. In esse rivivono aspetti e simboli della nostra epoca caratterizzata non solo da momenti fortemente contraddittori ma da una apparente forma di libertà che rende i soggetti più “soggetti” di quanto non lo fossero in passato oppressi da pregiudizi morali e religiosi o meglio pseudomorali e pseudoreligiosi. Bellezza, ricchezza, affermazione, secondo una formula tipicamente anglosassone, anzi statunitense, che la rende profondamente estranea alle tradizioni di molta parte del mondo ma perfettamente coerente con quell’indottrinamento psicologico che da decenni il capitale statunitense propone a tutti gli altri, particolarmente ai suoi alleati, e quindi falsa come l’età delle protagoniste dei suoi telefilm e servizi televisivi. Falsa come le inutili indagini che spesso ripropone sull’assassinio del Presidente J.F. Kennedy a Dallas, o sulla lealtà dei cowboys e slealtà degli indiani: sono i nuovi “idoli” contemporanei. Almeno quelli del cinema parrocchiale S. Crisogono che frequentavo da bambino accompagnato da nonno Vincenzo non erano ipocriti ma sinceri: Arrivano i nostri (o arrivavano).

Ho di fronte a me tre o quattro grandi cataloghi della pittura di Venanti con saggi di vari autori: dei quali particolarmente condivido lo scritto di Renzo Pardi, recentemente scomparso, che mi piace ricordare. Ne cito due particolarmente atti- nenti le attuali sue opere: Fantasmi, chimere e comparse. Opere 1970-1997 – Percorsi e Varianti. Opere dal 1970 al 2002. Nel primo Entropia 1 mi pare anticipare le nuove Entropie attuali.
Conosco Franco Venanti da quando sono stato funzionario Storico dell’Arte nella Soprintendenza per i Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici dell’Um- bria; l’ho conosciuto con altri artisti perugini ed umbri e con molti critici d’arte di grande valore che lo stimano.
L’ho rincontrato recentemente a Perugia nei pochi difficili mesi nei quali sono stato Soprintendente per i Beni Artistici, Storici ed Etnoantropologici dell’Um- bria: francamente non mi sembrava fosse passato del tempo dall’ultima volta o dalle ultime volte quando ospitammo la sua mostra “I Nuovi Barbari” nelle sale a piano terreno del Palazzo Ducale di Mantova. Il Maestro, sotto il suo cappello di feltro e con la sua barba da Socialista o da Anarchico fine ‘800, è sempre uguale a se stesso, un po’ timido, quasi distratto, con le mani fredde, un po’ esitante nel parlare. Si capisce perché molti artisti suoi colleghi – con particolare riferimento a quelli dell’Accademia di Belle Arti di Perugia – lo schivino, si trovino in disaccordo o a disagio, non hanno un buon rapporto con lui.
Basta però mettersi di fronte ai suoi dipinti, esaminare la sua produzione artistica e le sue azioni e creazioni parleranno con lui e di lui.
Diranno, ad esempio, che non scambia per sperimentazione la non conoscenza delle tecniche, sia antiche che moderne, che non scambia l’arte per propaganda politica e viceversa, che ritiene che la cultura in tutti i campi sia una componente essenziale della formazione dell’Artista, che le Arti sono un bagaglio importantissimo di tutte le culture, particolarmente di quella occidentale. Per cui è inammissibile che in una monumentale chiesa cattolica gotica o barocca si collochino ostensori tabernacoli pissidi di gusto poco più o meno che cimiteriale, che tutti sono chiamati ad approfondirne il messaggio estetico e trasmetterlo alle generazioni future. Gene- razioni invece che spesso non conoscendo o facendo un uso improprio dei segni o dei simboli ne travisano il messaggio. Come l’uso che vorrebbe essere provocatorio ma è invece blasfemo di Crocefissi e Croci capovolte che se pure non si vogliono riconoscere come simbolo religioso positivo, lo siano almeno come simbolo storico.

Il padre del maestro Venanti, Domenico Venanti, era un anziano socialista. Fortemente anticlericale come i Socialisti e gli Anarchici della nostra storia, era un bravissimo artigiano perugino: come Bianchi e Buonumori produceva scarpe. A differenza di altri produceva scarpe di tipo sportivo. Come gli antichi artigiani- artisti aveva una grande fede. Quando i Sacerdoti Barnabiti non erano presenti o non lo vedevano, si recava nella chiesa perugina del Gesù con i figli a pregare: pregava davanti ad una immagine del Nazareno coronato di spine attribuita a Federico Barocci od al suo ambiente che recentemente dai depositi della Galleria Nazionale dell’Umbria è tornata alla chiesa perugina del Gesù. Così, a richiesta, semplicemente, come semplicemente pregava il babbo con i suoi giovani figli: senza cerimonie, col cuore aperto alla Fede, quella dei semplici.
Così è il maestro Venanti: un artista dai modi estremamente semplici. Come la San- tità fra i Santi non consiste in azioni straordinarie ma in una continua pratica vissuta, così l’Artisticità per gli Artisti è il loro modo di esprimersi, è la loro azione quotidiana.
Il Maestro vive in una casa inverosimilmente carica di cose curiose ed in uno studio stracarico di opere dove lui stesso magro ed esile si aggira a fatica: figu- riamoci io, grasso e panciuto. Qui ci attendono della sorprese a dir poco strepi- tose: Medio Evo; La grande esplosione. Sono due grandi tele: una ,50x,80; l’altra 00x,50. Hanno un nucleo centrale dove i soggetti sono dipinti, fotografati, nuovamente riprodotti su tela, nuovamente dipinti. è stupefacente come l’Autore sembri dipingere secondo tradizione ed invece usi una tecnica sua propria che è assai innovativa perché produce effetti diversi da quelli della tradizione, ma non contrastanti con essa.
Franco Venanti infatti riconosce l’esistenza della realtà fisica e spirituale del mondo circostante: non vuole negarla ma riprodurla, analizzarla, studiarla, rappresentarla. Non copia i soggetti e le tecniche del passato, li analizza per superarli.

Si tratta pertanto della materia dell’opera, non del contenuto della rappresentazio- ne. Ma questo è altrettanto innovativo perché gli argomenti sono visivamente confrontabili all’effetto dell’esplosione delle americane Torri gemelle o della Cappella dei Mazzatosta a Viterbo colpita dai bombardamenti o della Stazione ferroviaria di Bologna : lo sbriciolamento dei materiali. Ma i suoi risultati non sono frammenti informi: bensì pezzi di dipinti dotati di propria forma.
Per cui è fondamentale per la comprensione dell’arte di Venanti il concetto di Entropia.
In termodinamica è la funzione di stato di un sistema che misura il suo grado di disfacimento o degradazione o disordine. La variazione di entropia dipende solo dallo stato iniziale e finale del sistema e, in un complesso concomitante di trasfor- mazione gli aumenti sono sempre maggiori delle diminuzioni. Ma gli aumenti, nel caso della Civiltà Occidentale possono essere anche scorie. Così che i dipinti di Venanti sono costellati di una miriade di aumenti ma anche di scorie.
Come gli antichi Etruschi tentavano di varcare la soglia della Morte ma intanto godevano spensieratamente della vita (che si incupirà quando i tenebrosi Cartaginesi contrasteranno la loro marineria), così Venanti esporrà dei “Bianchi e Neri” piccoli, centimetri 70x00, la cui forza è principalmente nel colore perché il nero si stempera in grigio scurissimo verdino come era dell’inchiostro sulla carta assorbente di quando ero bambino; il nero bluastro dei grembiuli della scuola di allora: un nero funereo che però non dà tristezza. Perché la tristezza non è nelle cose in se stesse ma all’interno di ciascuno di noi.

Che dire dei suoi Segni Zodiacali in cui il maestro Venanti indaga giocosamente la componente misteriosa e casuale del futuro, con una impostazione di sapore Presocratico?
I suoi Allievi gli rendono omaggio anche proponendo i suoi ritratti che esporranno in mostra per i sessant’anni di pitture perugine. Ripropongono ancora la cultura degli Etruschi, gioiosa e triste, emergente dalla pallida nebbia, in eterna contesa ed emulazione con quella apparentemente solare degli Elleni e con quella dei Cartaginesi dai rituali feroci, parlando a noi Nuovi Barbari.

 

Estratto da
60 ANNI IN MOSTRA 1
Franco Venanti & 46 maestri dell’arte contemporanea umbro-toscani
A cura di: Eugenio Giannì